Non s’ammazza così neanche un cane

Crime of the century (Supertramp, 1974)

L’uomo camminava incerto tra le macerie, era legato ai polsi e il suo carceriere lo seguiva puntandogli il kalashnikov alla nuca. L’uomo non pensava a nulla, solo a ciò che gli sarebbe
accaduto di lì a poco.

Sapeva che la sua vita era alla fine, che non avrebbe più rivisto sua moglie e suo figlio. Sapeva che avrebbero gettato il suo corpo in una fossa comune e che non l’avrebbero più trovato.
Sapeva già tutto anche se nessuno gli aveva detto nulla.
In questa guerra maledetta se ti fanno prigioniero sei finito, e la cosa migliore che ti può capitare è quella d’essere ammazzato in fretta. Questo sapeva.

Ma lui era stato torturato.
I suoi aguzzini erano due ragazzi dell’età più o meno di suo figlio. Lo torturavano e se la ridevano tra loro mentre ascoltavano musica metal a tutto volume così da coprire le urla dell’uomo.
Per due giorni gli martoriarono le carni con un rasoio e con una tenaglia gli strapparono le unghie delle mani, poi passarono ai genitali colpendoli con un martello. L’uomo era svenuto più volte sopraffatto dal dolore, e ogni volta era stato svegliato con una doccia d’acqua gelida.
Non cercavano informazioni e non lo sottoposero ad alcun interrogatorio, la tortura non serviva a questo scopo, era solo uno sfogo d’odio, nulla di più di questo.

Trascorsi due giorni le torture cessarono: un ufficiale anziano era entrato nella stanza e, dopo aver constatato le condizioni del prigioniero, aveva ordinato ai due giovani soldati di smetterla.
I suoi carcerieri non volevano che morisse al chiuso di una camera della tortura per un banale infarto. La sua morte doveva essere pubblica e la sua esecuzione doveva servire da esempio e da monito per tutti i nemici della patria.

L’uomo camminava verso il suo patibolo e lo sapeva. Ciò che non sapeva era come sarebbe morto, del resto gl’importava poco, sperava solo che fosse una cosa rapida.

Biondo, occhi azzurri, ad appena sedici anni ti ha già superato in altezza. Somiglia a sua madre ed è un bravo ragazzo. Ancora non sa bene cosa vuol fare ma gli piace lavorare il legno, e magari potrebbe darti una mano in bottega quando tornerai. Il fatto è che non tornerai.
Ma lui e sua madre sono al sicuro oltre confine e per te questa è l’unica cosa che conta.
Da quando ti hanno catturato non hai mai chiesto pietà. Non è stato per l’onore o per stupido orgoglio, è stato per un semplice senso di pudore. Hai ammazzato tanti uomini senza nemmeno sapere chi erano, se avevano figli, genitori o mogli. Erano semplici nemici e questo t’è bastato.
In guerra uccidere è normale, è come prendere l’autobus per andare a lavorare. È necessario, punto!
E nel conto ci metti pure la tua morte. Lo sapevi quando hai accettato di andare a combattere in una terra non tua. Conoscevi il rischio.
T’hanno convinto perché dicevano che la tua stessa famiglia era in pericolo, che se non fossi andato tu a casa del nemico sarebbe venuto lui da te a violentare tua moglie e ammazzare tuo figlio. Questo dicevano.
T’hanno insegnato un odio che non avevi, più efficace di qualunque arma.
E ora, a un passo dalla morte, hai perso tutto: le armi, il coraggio, persino l’odio per i tuoi carnefici.

«T’ammazzeremo come un cane!» gli gridò alle spalle il soldato col kalashnikov. Era la prima volta che qualcuno gli rivolgeva la parola. Tutti s’erano sempre limitati a guardarlo, picchiarlo e torturarlo parlando soltanto tra loro. E lui leggeva il loro disprezzo ma non ricambiava.

L’uomo arrivò in un grande spiazzo circondato da case semidistrutte, con un calcio sopra il polpaccio il suo carceriere lo bloccò facendolo inginocchiare. Altri tre uomini lo sdraiarono a terra legandogli polsi e caviglie con delle funi collegate a due argani.

Schiena a terra e occhi al cielo. È la prima volta dopo tanti giorni passati legato a una sedia che ti senti quasi comodo. Le ferite sparse in tutto il corpo bruciano ma, in qualche modo, il freddo ne affievolisce il dolore. Resta il tempo di guardare le nuvole grigie che si trasformano nei volti di tua moglie e di tuo figlio. Ti sorridono.
Scopri che almeno per loro sei stata una brava persona. Scopri che almeno per loro è valsa la pena d’aver vissuto. Scopri che la cosa più bella che hai provato è stato l’amore ricambiato.
E ora i tuoi nemici ti augurano l’inferno senza sapere che dall’inferno, finalmente, ti stanno liberando. Così guardi il cielo, sorridi e chiudi gli occhi.

I carnefici azionarono gli argani elettrici e le funi si tesero velocemente divaricando e distendendo le gambe e le braccia dell’uomo. Pochi secondi e tutti gli arti s’allungarono fino a dislocarsi, muscoli e tendini si strapparono, la pelle si lacerò. Pochi secondi e, con uno schiocco sordo, braccia e gambe si staccarono dal tronco.

Ma lo spettacolo riesce a metà: nessuno dei carnefici presenti sentì l’uomo urlare.
Lui era già morto prima che le macchine lo smembrassero. E sul suo volto non videro nessuna smorfia di terrore, solo un sorriso.

Carlo Tassi

Pubblicato da carlotassiautore

Architetto mancato, dopo vari mestieri si laurea a pieni voti in Scienze e Tecnologie della Comunicazione. Due passioni irrinunciabili come il disegno e la scrittura, poi tanti interessi e una grande curiosità verso le cose del mondo sono i motivi che l'hanno convinto a cimentarsi come autore satirico e illustratore freelance. Da anni collabora come autore e redattore nel quotidiano online Ferraraitalia.