Diario di un cassintegrato
3 – I lavoratori

«Il mio primo giorno in fabbrica l’ho vissuto veramente male: mi hanno sbattuto in taglierina 1600 ed è stato subito l’inferno!… Ora però, quasi quasi, lo rimpiango…» confessa Giuliano, quarantatré anni, padre di un bambino di sette.
Per alcuni questa fabbrica era una seconda famiglia, erano i più anziani, quelli del periodo d’oro. Per altri, soprattutto pensando ai primi mesi di prova, la fabbrica appariva come una specie di caserma, dove c’erano le burbe (i neoassunti) e i nonni (i veterani dell’azienda dai tempi di San Lazzaro). Nei vari reparti le regole erano fatte rispettare dai nonni, che spesso coincidevano coi capiturno.
«Il nonnismo in fabbrica è un fatto risaputo!» sostiene Alessandro (Zucco per gli amici e i colleghi), «Anche mio padre, alla Montedison negli anni sessanta, l’ha vissuto…» Qui non si faceva certo eccezione e Zucco lo sa bene, da ex operaio e sindacalista, poi aggiunge: «La dirigenza tollerava e incoraggiava certi atteggiamenti dei “capetti”, anche se noi del sindacato ci siamo sempre opposti a questo modo di fare!»
«Era un modo per mantenere la disciplina, non c’è da scandalizzarsi!» rivela Antonio, cinquantasei anni, guarda caso ex capoturno, «La fabbrica è un luogo pericoloso, occorre rispettare le regole perché l’incidente è sempre dietro l’angolo e la responsabilità ricade tutta su noi capiturno… Di notte non ho mai impedito a nessuno di leggere il giornale o giocare a carte. L’importante è non creare situazioni di pericolo, quando gli impianti sono in moto ognuno deve essere al proprio posto e sapere cosa fare!», Antonio parla al presente, come se la fabbrica fosse ancora aperta e funzionante.
Chiacchierando con questo o quel collega, l’argomento nonnismo emerge casualmente e in modo del tutto marginale. Ciò che si percepisce è tutt’altro, direi una diffusa nostalgia, non tanto del lavoro in sé, quanto della socialità coi compagni, dell’abitudine a ritrovarsi nello stesso luogo da anni. C’è da dire poi che parecchi di noi, specie nell’ultimo biennio, avevano iniziato a chiamare la fabbrica “Fort Alamo”. Questo perché, con quello che periodicamente succedeva, era chiaro a tutti che la baracca sarebbe saltata per aria di lì a poco.
Ma allora perché non si è fatto nulla per impedirlo? La domanda è tuttora senza risposta, o meglio, qualcuno ha tentato di darsene una, ma senza troppa convinzione. Emerge una sorta di fatalismo, la certezza che non si potesse fare nulla per evitarlo e che occorresse aspettare e sperare che qualcosa succedesse, magari l’arrivo di un’altra multinazionale straniera che appianasse tutti i debiti e facesse ripartire l’economia… Sogni ad occhi aperti ovviamente!
«Con l’arrivo dei francesi il clima cambiò quasi subito!» dice Cristiano, quarant’anni, ora papà a tempo pieno di un bimbo di due anni, «Non che sia cambiato in peggio, c’era forse più menefreghismo!»
Può darsi che qualcuno si senta in colpa per come sono andate le cose? Questa volta le versioni sono discordanti: alcuni puntano il dito sui colleghi, altri fanno autocritica, praticamente tutti accusano dirigenza e proprietà di insensatezza e incompetenza.
«…L’azienda ha chiuso perché i due manager che l’hanno gestita dall’arrivo dei francesi erano semplicemente incapaci di fare il loro lavoro, inutili, anzi dannosi. Infatti s’è poi visto cos’hanno combinato! È vero anche che tra noi operai c’erano molte teste di cazzo che non si sono minimamente preoccupati se era il caso di tentare qualcosa. Tutti sapevano che sarebbe finita in merda, ma nessuno ha fatto o detto nulla finché lo stipendio arrivava tutti i mesi. C’è stato menefreghismo e ipocrisia da parte di tutti.» dichiara Matteo, trentun anni, meccanico addetto alla manutenzione degli impianti e padre single di un bambino di otto anni.
«…In fabbrica la situazione era critica già da un pezzo, appena un anno dopo essere stato assunto ho iniziato a pensare di lavorare per una manica di deficienti. Nel caso nostro la crisi economica c’entra poco, la fabbrica ha chiuso per le cazzate dei dirigenti.» rincara Fabio, ventinove anni, assunto nel 2003.
«…Se adesso siamo tutti a spasso è anche colpa nostra, perché quando è stato il momento di farci sentire non l’abbiamo fatto. Alle assemblee abbiamo sempre accettato tutto quello che ci dicevano, invece di fare sciopero.» sostiene Milva, trentaquattro anni, addetta al reparto taglio.
«…Colpa di chi gestiva… ma è anche colpa dei lavoratori, da anni le cose non si facevano nel modo giusto e tutti già lo sapevano…» le fa eco Shiraz, pakistano di trentaquattro anni.
«Ma scusate, noi operai cosa potevamo fare secondo voi? Scioperare? Quando un’azienda è in crisi e la produzione supera le vendite, fare sciopero si traduce in un vantaggio per l’azienda! Altro che metterli in difficoltà… Se ne fregavano e risparmiavano sui nostri stipendi! E qui il principio si va a far benedire, cari miei! Gli scioperi servono se riesci a mettere l’azienda con le spalle al muro, altrimenti sono solo sacrifici inutili, punto!» interviene Andrea, trentasei anni, padre di un bimbo di sei anni, dodici anni come turnista in calandra.
I giochi sono fatti ma durante le assemblee si discute ancora, la polemica è sempre lì, pronta ad infiammare gli animi, come se questo potesse servire a risolvere la situazione. La fabbrica è chiusa, il lavoro è perso, la gente lo sa ma evidentemente non ha ancora metabolizzato la cosa. Una vita in fabbrica non si può cancellare con facilità, nemmeno dopo una sentenza del tribunale e i lucchetti ai portoni. Alle assemblee ci sono gli avvocati del sindacato, si parla delle procedure per la mobilità, della prossima scadenza della cigs, di liste per il tfr, di verbali del tribunale e della famigerata legge Fornero. Tutti vogliono essere rassicurati, chiedono se avranno i loro soldi e quando. Si chiacchiera, si sorride e si scherza, eppure avverto intorno a me un malessere diffuso, uno smarrimento generale, anche se nessuno lo ammette apertamente.

Pubblicato da carlotassiautore

Architetto mancato, dopo vari mestieri si laurea a pieni voti in Scienze e Tecnologie della Comunicazione. Due passioni irrinunciabili come il disegno e la scrittura, poi tanti interessi e una grande curiosità verso le cose del mondo sono i motivi che l'hanno convinto a cimentarsi come autore satirico e illustratore freelance. Da anni collabora come autore e redattore nel quotidiano online Ferraraitalia.