Il treno di Margherita

Who’s Gonna Find Me (The Coral, 2006)

Il sovrintendente passava sempre alla solita ora. Era un tipo preciso, pignolo, non ti guardava mai in faccia. Per lui eri merda, merda come tutti quelli che stavano sotto di lui.

Quel lunedì tre agosto gli uffici erano chiusi per ferie. Io ero stato chiamato all’ultimo momento per fare uno straordinario: mi dovevo occupare delle pratiche inevase di Margherita.

Margherita Cantelli aveva lavorato nell’ufficio a fianco al mio fino a tre giorni prima. Poi, venerdì mattina, aveva deciso di salutare tutti gettandosi sotto l’intercity per Bologna.

Margherita entra in stazione alle dieci e tre quarti circa. La stazione è affollata, molta gente è in viaggio per le vacanze. Margherita non ha bagagli, si ferma a dare un’occhiata al tabellone degli arrivi e delle partenze, sembra tranquilla, addirittura sorridente. Poi s’avvia spedita nel sottopasso. Sale la rampa, sbuca sulla banchina tra i binari quattro e cinque e resta in attesa. Ha pure il tempo di fumarsi un’intera sigaretta mentre aspetta sul bordo del quinto binario.

Una voce metallica gracchia dall’altoparlante: “Attenzione, allontanarsi dal binario cinque. L’intercity proveniente da Venezia e diretto a Firenze è in transito ad alta velocità!”

Un potente fischio in lontananza annuncia l’imminente arrivo del convoglio e in un attimo il treno sfreccia sul binario con un frastuono assordante. Tutta la stazione sembra tremare al suo passaggio mentre lo spostamento d’aria fa volare le cartacce lasciate per terra e le pagine d’un giornale dimenticato su una panchina. Il treno sembra non finire mai e la sua velocità è tale da non riuscire a distinguere le facce dietro i finestrini.

Poi, finalmente, l’enorme serpentone d’acciaio passa e s’allontana. La gente, all’apparenza indifferente, resta stordita per qualche secondo. Una bimba, in attesa di partire assieme a sua madre, guarda a terra e vede qualcosa d’insolito, sembra una biglia di vetro. La raccoglie. È morbida, calda, e le tinge la manina di rosso. La porge alla mamma. La donna riceve l’occhio azzurro rigato di sangue, lo fissa: un intero bulbo oculare, un macabro regalo dalle piccole mani innocenti della figlioletta. Grida inorridita.

Un secondo grido e un altro ancora. La gente si sporge dal bordo della banchina, guarda in basso, sulle rotaie del binario cinque. Un ragazzo di vent’anni si piega in avanti e vomita, un poliziotto sbuca dal sottopasso, accorre e chiama il collega sull’altra banchina, gli dice di far presto e di portare dei teli bianchi. Altri restano a guardare in silenzio, espressioni d’orrore e di disgusto nelle loro facce…

Margherita era bella, una mora con gli occhi d’uno splendido azzurro chiaro. Proprio bella!

Prima o poi le avrei chiesto d’uscire…

Il sovrintendente era brutto. Ma non solo brutto, era un fottutissimo stronzo. E per lui ogni occasione era buona per dimostrare a tutti quanto era fetente.

«Sortini, ha liberato la scrivania della Cantelli?» urlò alle mie spalle.
Ebbi un sussulto e mi girai. «Non ho ancora finito dottore…» risposi.
Il sovrintendente Soprani attraversò la porta dell’ufficio e mi si parò di fronte. «Si sbrighi! Non dorma come al solito!» sbraitò a due centimetri dal mio naso. «Tutta la roba della Cantelli dev’essere portata via e sistemata entro mezzogiorno! Sennò peggio per lei!»

Girò i tacchi e uscì, tronfio e impettito come al solito.

Io continuai il mio lavoro senza fiatare. Mi rimase appiccicata addosso quella sua alitosi fatta d’acetone, aglio marcio e fondi di caffè che mi rivoltava lo stomaco. Spalancai la finestra, tornai alla scrivania di Margherita, aprii i cassetti e tirai fuori tutto.

Elenchi, preventivi, contratti, schede di lavoro. Poi un sacchetto di caramelle, un gufetto di porcellana, due cornici con le foto di lei durante una vacanza di qualche anno prima. Guardai ancora una volta il suo sorriso incantevole e mi venne un groppo alla gola.

Mi chiedevo perché era successo. Se lo chiedevano tutti naturalmente.

In fondo all’ultimo cassetto trovai un libretto con la copertina celeste. Lo aprii, lo sfogliai: era un diario.

Non avrei dovuto ma iniziai a leggere. Magari c’era scritto qualcosa che potesse spiegare il suo gesto…

Magari…

Scorsi le pagine velocemente e mi soffermai sulle ultime.

Lessi: “Il maiale, m’ha toccata anche oggi. Ha avuto il coraggio di sorridermi e di dirmi di star tranquilla. Che tanto rimarrà un segreto tra di noi. Di non preoccuparmi, che, se faccio quello che mi chiede, poi l’assunzione me la rinnova anche stavolta… Mi faccio schifo… Vuole guardarmi mentre ingoio il suo sperma… Sto male, non riesco a togliermi quel sapore dalla bocca, quella puzza orrenda mi perseguita… Sono andata in bagno a vomitare per l’ennesima volta. Vorrei gridare a tutti che lo odio ma non posso, non adesso che son rimasta sola… Ieri gli ho detto che con lui avevo chiuso, che non venisse più a cercarmi, che avrei detto tutto all’ispettorato, che l’avrei denunciato, sputtanato. Ma lui è Soprani, l’onnipotente, e m’ha risposto che può mettermi a casa in qualunque momento e che nessuno mi crederebbe… Poi se l’è tirato fuori e m’ha riso in faccia… Forse me lo merito, forse sono marcia io, sennò non mi spiego perché a me e non ad un’altra… Oramai la soluzione è una sola, devo soltanto trovare il coraggio di farlo e buonanotte…”

«Sortini, ancora qui? Non ha ancora finito con la Cantelli?» risuonò la solita voce sgradevole, sempre alle mie spalle.

«No dottore… m’è capitato tra le mani il diario di Margherita e ho letto qualche riga…» dissi io fissandolo negli occhi.

Il sovrintendente impallidì e per la prima volta incrociò il mio sguardo. Sembrava sorpreso, disorientato. «E che c’è scritto?» balbettò.

«Delle cose assai interessanti. C’è anche il suo nome sa…» gli dissi, «Cose incredibili. Dovrò darlo alla polizia ferroviaria che sta indagando sulla disgrazia…»

«Sortini, lo consegni a me. Ci penso io a darlo a chi di dovere!» mi disse col sorriso più falso che abbia mai visto.

«Mi dispiace sovrintendente, qui Margherita parla di lei e dei vostri rapporti particolari… Dovrò consegnarlo io a chi di dovere!»
«Sortini, non sia stupido. La Cantelli soffriva di depressione, lo sanno tutti. Avrà scritto sicuramente delle cazzate senza senso… lo dia a me!»

«Era depressa, certo… e qui se ne capisce il motivo!»

«Ha cominciato a dare i numeri dopo la morte dei suoi. Ho pure cercato d’aiutarla, ma non è servito a nulla.» sospirò. Aveva la stessa faccia tosta d’un mafioso al funerale della sua vittima.

«Ma la pianti per piacere!» sbottai. Ormai la mia sopportazione era giunta al limite massimo.

«Su Sortini, mi dia quel diario se ci tiene a continuare a lavorare in questo posto!» m’intimò.

«Mi sta minacciando dottor Soprani? Lo sa cos’ho appena letto in questo diario? Lo sa che potrebbe essere denunciato per quello che c’è scritto qua dentro?»

«Denunciato per cosa? Per i vaneggiamenti di una troietta arrivista?» chiese con strafottenza. Quella sua maschera di superiorità e finta sicurezza si stava sfaldando davanti ai miei occhi. Era evidente la sua paura così come la meschinità di cui era impregnato. Vedevo un ometto piccolo piccolo sul punto di crollare.

Andai alla finestra per respirare. «Lei ha un problema di alitosi… gliel’ha mai detto nessuno?» dissi.

Improvvisamente Soprani s’avventò verso di me. «Dammi quel cazzo di diario!» gridò.

Lo scansai e gli afferrai un braccio spingendolo via. Tentò di colpirmi con un pugno ma era più bravo a comandare che a fare a botte. Lo afferrai e lo lanciai oltre la finestra.

Sentii un tonfo sordo, m’affacciai dal davanzale e lo vidi: giaceva immobile in una pozza di sangue, un fantoccio disarticolato sul marciapiede del cortile interno.

Dopo un volo di cinque piani l’impatto col cemento gli aveva fracassato il cranio, spezzato le ossa e spappolato gli organi interni. Era morto sul colpo.

Mi guardai attorno, non vidi nessuno. In quell’ala del palazzo tutti gli uffici erano chiusi da venerdì.

Me ne andai. Il giorno stesso portai il diario ai carabinieri, del volo dalla finestra del sovrintendente non dissi nulla. Lo trovarono due giorni dopo già gonfio e pieno di mosche.

Passarono altri tre giorni quando, sulla prima pagina della Nuova, lessi questo titolo: “Molestie sul lavoro, duplice suicidio di vittima e carnefice”. Così andai al cimitero a trovare Margherita, sulla tomba c’era ancora il manifesto funebre. Posai un mazzolino di fiori di campo in un vaso e dissi: «Mi dispiace non averlo capito prima Margherita. Ti vedevo tutti i giorni e non immaginavo quanto soffrissi… Non è vero, quel treno non t’è passato sopra. Tu quella mattina sul treno ci sei salita e te ne sei andata per fare finalmente il viaggio che volevi. Ora sei lontana da tutta questa merda! Ciao Margherita, sii felice. Sappi che quello stronzo ha avuto ciò che si meritava, è in viaggio anche lui adesso… Ma stai tranquilla, non lo rincontrerai più, è andato nella direzione opposta!»

Carlo Tassi

Pubblicato da carlotassiautore

Architetto mancato, dopo vari mestieri si laurea a pieni voti in Scienze e Tecnologie della Comunicazione. Due passioni irrinunciabili come il disegno e la scrittura, poi tanti interessi e una grande curiosità verso le cose del mondo sono i motivi che l'hanno convinto a cimentarsi come autore satirico e illustratore freelance. Da anni collabora come autore e redattore nel quotidiano online Ferraraitalia.